Un approfondimento sulla differenza sostanziale tra pesca industriale e pesca artigianale e tra realtà dove la pesca è gestita e dove non lo è.
Dopo aver visto Seaspiracy, il docufilm targato Netflix che ha suscitato grande scalpore esplorando importanti “hot topics” legati alla pesca industriale, Worldrise vi propone un approfondimento su un’importante differenza non citata all’interno del documentario: il fatto che esista una distinzione sostanziale tra pesca industriale e pesca artigianale e tra realtà dove la pesca è gestita e dove non lo è.

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Cos’è la pesca artigianale e come viene praticata?
Seaspiracy attacca pesantemente la pesca industriale, che utilizza metodi altamente tecnologici e che agiscono in maniera non sostenibile, a discapito delle specie ittiche e dell’ambiente. Guardando il documentario, la domanda che sorge spontanea è una: esiste solo la pesca industriale? La risposta è no e, anzi, esiste una differenza sostanziale tra pesca industriale e pesca artigianale e tra realtà dove le attività ittiche sono ben gestite e dove ciò, invece, non succede.
Pescare nel rispetto dell’ambiente, infatti, significa prelevare dal mare una quantità di risorse tali che non determinino drastiche riduzioni delle popolazioni marine, evitando di impattarle al punto che non siano più in grado di riprodursi: solo ciò che serve, senza produrre sprechi e senza determinare effetti negativi sugli ecosistemi.
La piccola pesca artigianale, come previsto dalla normativa italiana, utilizza imbarcazioni non superiori alle 10 tonnellate di stazza lorda. Le dimensioni del natante permettono di essere operativi con costi di investimento e di esercizio contenuti. Queste imbarcazioni operano entro le 12 miglia dalla costa ed è una realtà in cui si cerca di evitare il più possibile sprechi, rigetti e catture accidentali. L’impossibilità di spingersi oltre le 20 miglia dalla costa, inoltre, fa sì che le capacità di pesca, lavorazione, conservazione e stoccaggio del prodotto non siano neanche lontanamente paragonabili a quelle delle grandi barche. Questo tipo di pesca utilizza attrezzi potenzialmente più selettivi, che consentono di catturare solo singole “specie target”, e a basso impatto ambientale, nel rispetto dei limiti del mare e degli ecosistemi. Bisogna dire, però, che la selettività della pesca artigianale non è necessariamente più elevata e tale pesca è considerata meno impattante rispetto a quella industriale perché le piccole dimensioni di essa determinano un minor prelievo a livello di quantità di pescato.
Le realtà basate sulla pesca artigianale utilizzano “reti da posta”, “nasse”, “trappole e lenze” per catturare pesci come occhiate, ombrine, scorfani, tombarelli, tonnetti e triglie, ma anche molluschi, come polpi, seppie e totani, e crostacei, come aragoste, astici e gamberi.
La pesca artigianale è certamente l’attività di prelievo ittico che più si conforma alle raccomandazioni del codice della Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) e può essere ritenuta un’attività all’avanguardia dal punto di vista della sostenibilità ambientale, economica e sociale, nonostante si tratti di una pratica antica e parte delle tradizioni locali delle comunità costiere: un attrezzo da pesca artigianale ha un costo medio mille volte inferiore a quello di un attrezzo della pesca industriale e lo scarto di pesce inutilizzato risulta più di 20 volte minore nella piccola pesca rispetto a quella su scala maggiore.

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La pesca industriale
In Italia, la pesca industriale, chiamata anche “pesca d’altura” o “pesca oceanica”, è praticata tutto l’anno e prevalentemente in mare aperto, oltre le 12 miglia dalla costa. Utilizza prevalentemente grandi imbarcazioni (superiori a 12 metri e che possono arrivare anche oltre i 24 metri) con “reti a strascico”, “reti a circuizione” e “draghe”. Quest’ultime sono attrezzi per la pesca trainati da imbarcazioni sui fondali sabbiosi: rastrellano e arano i fondali in cerca di bivalvi, impattando fortemente gli habitat di questi molluschi.
La pesca a strascico è indirizzata agli organismi demersali, cioè quelli che vivono a contatto con i fondali, come crostacei, polpi, calamari, ma anche saraghi, triglie, merluzzi o sogliole. Questo tipo di attività ittica cattura pesce commerciabile, ma anche rifiuti e, ancor peggio, pesci sotto taglia, anche neonati all’inizio del proprio ciclo di vita. Si calcola che solo il 20% del bottino di una battuta di pesca realizzata con questa tecnica venga poi messo in commercio: ecco perché la pesca a strascico può creare molti danni alla biodiversità dell’ecosistema marino e anche ai suoi fondali, se non viene regolamentata e ben gestita.
Infine, oltre a uccidere direttamente molti pesci e altre specie marine, alcuni studi hanno dimostrato che la pesca a strascico è devastante per i fondali: alza e rimuove grandi quantità di sedimento, distruggendo così habitat importantissimi per la vita di molti organismi, intorbidisce l’acqua rendendola inadatta per diverse specie di fauna e flora marina, come la P. oceanica, rilascia agenti inquinanti, e libera, con il passaggio delle reti, grandi quantità di CO2 immagazzinata negli anni entro i fondali marini (Pusceddu et al 2014).
Per conservare gli stock ittici del Mediterraneo di cui, secondo la FAO, circa il 62,5% è attualmente sovrasfruttato (per quelli per cui è disponibile una valutazione), la Common Fisheries Policy (CFP) stabilisce un insieme di regole per gestire le flotte da pesca europee. Ad esempio, attraverso il controllo dello sforzo di pesca: l’obiettivo è quello di ridurre il potenziale di pesca delle flotte, attraverso limitazioni del numero di licenze concesse ai pescatori e del numero di giorni in mare, ma anche restrizioni sul tipo di imbarcazioni e sugli attrezzi utilizzati per la pesca.
Altri metodi prevedono l’utilizzo di misure tecniche, che limitino le catture di una parte dello stock, ad esempio: preferire maglie e reti più selettive, in modo che aiutino i pescatori (SafetyNet Technologies – Solutions for Sustainable & Precision Fishing), oppure biodegradabili, effettuare un controllo maggiore sulla tipologia di attrezzi utilizzati, creare aree interdette alla pesca o con chiusure stagionali, controllare le taglie minime, il sesso e lo stadio di maturità degli organismi che possono essere sbarcati.

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E in Italia, la situazione com’è?
Nel nostro paese la pesca artigianale è molto diffusa: rappresenta circa il 70% della flotta totale e crea lavoro per quasi la metà dei pescatori italiani. E’ costituita da una pluralità di sistemi di pesca, le cui caratteristiche sono correlate strettamente agli aspetti morfologici ed ecologici delle aree in cui si svolgono queste attività. Oggi, attraverso politiche nazionali ed europee, la pesca industriale viene limitata riducendo il numero delle grandi imbarcazioni (superiori a 12 e 24 m) e, di conseguenza, allentando la pressione sulle popolazioni ittiche più sfruttate.
In Italia, ma anche in altri paesi europei, è stato deciso di vietare la pesca a strascico delle grandi flotte sottocosta (entro le 3 miglia marine o al di sopra della batimetrica dei 50 metri), dove comunità marine complesse si sviluppano; la pesca artigianale, invece, che usa imbarcazioni sotto i 12 m, in realtà non è sotto regolamentazione, perché non viene monitorata.
Nonostante ciò, però, è ancora frequente leggere sui giornali o in rete notizie di pescherecci e barche che strascicano impunemente in zone vietate, come le aree marine protette (AMP), arrecando danni irreparabili agli habitat marini e minando le loro stesse possibilità future di pesca.
Sebbene il 9,68% della superficie del Mar Mediterraneo sia stato designato come area marina a vario titolo (includendo le AMP, i siti Natura 2000, la parte marina dei siti Ramsar e delle Riserve della biosfera dell’UNESCO e le Aree Specialmente Protette di Interesse Mediterraneo-ASPIM), questa percentuale è costituita soprattutto da piccole aree marine, non efficacemente gestite e controllate. Inoltre, solo lo 0,03% del Mar Mediterraneo è coperto da aree marine a protezione integrale, ovvero quelle zone in cui qualsiasi attività, dalla pesca allo snorkeling, è completamente interdetta, ad eccezione della ricerca scientifica.
In Italia, anche se il 19,12% delle acque territoriali (0-12 miglia nautiche) è coperto da aree marine a vario titolo protette, solo l’1,67% di esse si distingue per aree che implementano efficacemente i propri piani di gestione e lo 0,1 % è designato come aree a protezione integrale. In molte Aree Marine Protette italiane la piccola pesca artigianale è spesso l‘unica attività di prelievo ittico professionale autorizzato (viene mantenuta nelle zone B e C di alcune aree marine protette, ma non in tutte, mentre è vietata nelle zone A, di riserva integrale) e si basa sul criterio della “residenzialità dei pescatori”, ovvero possono pescare solo i pescatori in possesso di licenza specifica e che risiedono nei comuni compresi nell’area di pertinenza dell’Area Marina Protetta.
Numerosi studi, inoltre, hanno evidenziato che i benefici derivanti dall’istituzione di aree protette sulla fauna ittica di interesse commerciale, sia all’interno sia all’esterno dell’area (effetto spill-over) non sono immediati, ma avvengono con gradualità. E’ necessaria, perciò, una maggiore attenzione su questa attività, capace di rafforzare le singole aree protette nel quadro complessivo dei servizi ecosistemici, perchè la pesca può diventare sostenibile, rispettando l’ambiente marino e non usurpando le economie locali, ma anzi valorizzandole, come nel caso di alcune attività ittiche sviluppate a livello locale in Alaska, Nuova Scozia, Oklahoma e, nel Mediterraneo, la riserva naturale di Torre Guaceto.
Il CESTHA di Marina di Ravenna
Una realtà dove la pesca è gestita in modo sostenibile, che lavora per la salvaguardia degli habitat marini e con cui Worldrise collabora, è il CESTHA (Centro sperimentale per la Tutela degli Habitat) di Marina di Ravenna, un ente di ricerca senza scopo di lucro la cui finalità è la protezione dell’ambiente marino e delle specie che abitano il Pianeta Blu.
Lo staff del Centro è composto da ricercatori e specialisti delle scienze naturali, della biologia marina e della veterinaria, che si occupano principalmente di programmi di conservazione delle specie marine a rischio e di promozione di attività di gestione sostenibile della pesca, lavorando in stretta collaborazione con il CNR, l’Università di Bologna, l’Università di Padova, oltre a numerosi altri istituti di ricerca pubblici e privati. Dal 2016, inoltre, CESTHA ha posto la propria sede operativa nel complesso storico dell’antico Mercato del Pesce di Marina di Ravenna, riconvertito ad innovativo polo di ricerche marine.
Lo staff del centro ricerca è specializzato nello sviluppo innovativo e sostenibile dei sistemi di pesca, lavorando fianco a fianco con gli operatori ittici che dipendono, per il loro stesso sostentamento, proprio dalla produttività del mare. I pescatori, infatti, sono partner dei progetti e parte del lavoro di monitoraggio e conservazione viene effettuato direttamente a bordo dei loro pescherecci, con gli operatori di CESTHA imbarcati nelle marinerie che si estendono da Chioggia fino a San Benedetto del Tronto.

Operatore del Cestha al lavoro – foto tratta da cestha.it
Cosa possiamo fare noi?
Ognuno di noi, nel proprio piccolo, può fare la differenza, sensibilizzando e coinvolgendo chi ci è più vicino, come amici e parenti, ad un consumo consapevole e responsabile delle risorse ittiche, attraverso la valorizzazione del “pesce ritrovato”, detto anche “dimenticato”, ovvero di tutte quelle specie parte della nostra cultura culinaria ma che, nel tempo, sono andate perdute e sostituite da poche specie più “commerciali” e spesso sovrasfruttate o provenienti da allevamenti intensivi.
Per valorizzare il pescato in tutta la sua varietà, Worldrise promuove la redistribuzione e la riduzione della pressione di pesca e lo fa tramite il progetto SEAstainable SEAfood Guide, la cui mission è “la promozione della pesca tradizionale e del prodotto ittico dimenticato, per favorire la riduzione del consumo di specie la cui pesca eccessiva ne sta causando la scomparsa dai nostri mari e il danneggiamento degli ecosistemi”. Una pesca non intensiva, che si inserisce all’interno di un modello di consumo alternativo a quello intensivo, è una pesca gestita correttamente e che può diventare una risorsa davvero rinnovabile. I prodotti ittici possono essere una fonte di proteine più sostenibile degli allevamenti a terra, che hanno un impatto sull’ambiente molto elevato e, inoltre, il poter scegliere di non consumare pesce è un privilegio che non tutti hanno: ben il 10% della popolazione mondiale fonda la sua sussistenza giornaliera sui prodotti ittici.
La convivenza tra protezione delle risorse naturali e la loro corretta gestione è possibile: Worldrise crede in questo e vuole apporre il proprio contributo anche grazie a progetti come il 30×30, un’iniziativa nazionale che contribuisce ad uno sforzo internazionale indirizzato alla protezione di almeno il 30% dei mari italiani entro il 2030, attraverso l’istituzione di Aree Marine Protette (AMP).
Bibliografia:
- Appunti corso “Pianificazione spaziale e monitoraggio ambiente marino” di Michele Casini, Biologia marina, campus di Ravenna, Alma Mater Studiorum Università di Bologna.
- Appunti corso “Disciplina giuridica delle Aree marine protette” di Greta Tellarini, Biologia marina, campus Ravenna, Alma Mater Studiorum Università di Bologna.
- La pesca a strascico: un metodo distruttivo che sta trasformando i fondali marini in deserti
- Aree marine protette | Ministero della Transizione Ecologica
- Gestione sostenibile della pesca: passi avanti, ma obiettivo ancora lontano
- SEAstainable SEAfood Guide
- CESTHA
- Regolamento (CE) n. 1967/2006 della Commissione del 21 dicembre 2006
- https://www.riservaditorreguaceto.it/index.php/it/i-sapori-della-riserva/pesca/il-modello-torre-guaceto
- https://www.riservaditorreguaceto.it/index.php/it/i-sapori-della-riserva/pesca/presidio-slow-food
- Chronic and intensive bottom trawling impairs deep-sea biodiversity and ecosystem functioning