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Il 13 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia si è incagliata nelle acque dell’isola del Giglio, nel cuore dell’Arcipelago Toscano. A distanza di 10 anni dall’incidente, immergiamoci nei fondali dell’isola per capire qual è il loro stato di salute.

Il tragico incidente della nave Costa Concordia, che costò la vita a 32 persone, ha avuto un notevole impatto sull’isola del Giglio e sui suoi abitanti: il drammatico evento ha, infatti, avuto ricadute significative sull’economia e sull’ecosistema dell’isola. Le operazioni di rimozione del relitto sono state lunghe e complesse, organizzate fin nei minimi dettagli per evitare ulteriori danni ai fragili fondali, già compromessi dalla collisione. Sono stati necessari due anni per il galleggiamento e l’allontanamento della nave e il piano, ancora in corso, ne prevede ulteriori otto per il restauro ambientale. A distanza di 10 anni dall’incidente, immergiamoci nei fondali dell’isola per capire qual è il loro stato di salute.

Foto via ilgiornale.it

LE CONSEGUENZE DELLO SCONTRO

Dopo la rimozione della nave, nei fondali non restava sostanzialmente niente di riconoscibile: la presenza di sedimenti e l’effetto dell’ombra del mezzo avevano aumentato il danno sulla prateria di Posidonia oceanica, area di nursery fondamentale per le specie marine. Inoltre, per la rotazione e rimozione della nave è stato necessario installare alcune piattaforme, la cui costruzione ha provocato un ulteriore aumento dei sedimenti sottili, a causa delle perforazioni.

A maggiore profondità il fondale era costituito dalla complessa e delicata biocenosi del Coralligeno, caratterizzata da spugne e gorgonie dai colori brillanti, accompagnate da centinaia di altre specie di grande importanza all’interno della rete trofica. In molte aree confinanti con il relitto la biocenosi del Coralligeno è stata letteralmente ricoperta da sedimenti sottili, che hanno determinato la morte degli organismi presenti.
I ricercatori hanno iniziato il loro lavoro cartografando lo stato dei fondali: delle praterie di Posidonia originarie rimaneva solamente la base organica della pianta, detta “matte”, ormai morta. Analogamente, sui fondali rocciosi il substrato appariva sbiancato e privo di quella moltitudine di specie tipiche del Coralligeno.

Per ripristinare gli habitat, sono state adottate nuove tecniche di trapianto di organismi, in modo da accelerare la ricostruzione naturale delle biocenosi.

Lo stato dei fondali dopo la rimozione del relitto – foto via maremmanews.it

TRAPIANTI DI POSIDONIA…

Per quanto riguarda la riforestazione delle praterie di Posidonia oceanica, una fanerogama marina endemica del Mar Mediterraneo e fondamentale per l’equilibrio ecologico costiero, erano state individuate tre aree, comprese tra i 10 e i 23 metri di profondità, in cui agire. I primi trapianti sperimentali sono stati eseguiti nel 2016: si è scelto di intervenire inserendo giovani talee di 20-30 cm da fissare al substrato grazie a picchetti di ferro dolce, degradabili in pochi anni. Questa scelta ha permesso di evitare l’immissione nell’ambiente di sostegni artificiali non eco-compatibili e, allo stesso tempo, di fornire alle piantine un ausilio per la radicazione.

Foto via Seaforchange.com

Il successivo monitoraggio delle talee ha mostrato una fase iniziale di adattamento, caratterizzata dalla diminuzione del numero di fasci fogliari e imputabile allo stress subìto nel trapianto, e una fase di crescita a partire dal secondo anno. A distanza di cinque anni, si è avuto un incremento anche del 190% della prateria iniziale. Il successo del trapianto sperimentale ha aperto la strada al trapianto a più ampia scala, in successione, nelle tre diverse aree. Nel 2021, erano stati trapiantati 1500 m² di Posidonia, con una densità di circa 27-31 fasci/m².

Posidonia oceanica

… E INNESTI DI GORGONIE

Ancor più prudente è stato il lavoro effettuato per il Coralligeno: poiché non esistevano precedenti scientifici, i ricercatori hanno operato su un’area sperimentale con tre tecniche distinte in parallelo, per capire quale fosse la più efficace. La prima tecnica si basava su innesti di rocce vive (ossia piccoli nuclei di bioconcrezionamento colonizzati da vari organismi), la seconda sull’inserimento di substrati calcarei favorevoli alla colonizzazione e la terza sul trapianto di singole gorgonie.  A distanza di tre anni, si è ottenuto uno scarso successo per i substrati calcarei, mentre una notevole efficacia è stata riscontrata con le altre due tecniche. Oggetto delle attività di trapianto sono state le 3 specie di gorgonie maggiormente diffuse sui fondali costieri dell’isola: la gorgonia bianca Eunicella singularis, la gorgonia gialla Eunicella cavolini e la gorgonia rossa Paramuricea clavata.

Il materiale biologico per gli innesti è stato reperito dai pescatori del luogo, che hanno raccolto le gorgonie appartenenti a colonie già staccate dai fondali e rimaste intrappolate nelle reti. Dal 2019 ad oggi sono state installate 353 gorgonie, tra i 18 e i 36 m di profondità, utilizzando resine epossidiche biocompatibili, e il tasso di sopravvivenza di questi ottocoralli si aggira intorno al 90%. La presenza delle gorgonie aumenta la tridimensionalità del fondale e permette l’insediamento di larve di altre specie tipiche dell’habitat.

Curiosità Sulle Gorgonie Worldrise SCassisi 2

Gorgonia – Foto di S. Cassisi

TANTI NUOVI ABITANTI NEI FONDALI DELL’ISOLA

Il graduale ripristino dell’area ha portato ad una nuova colonizzazione da parte della fauna ittica. Per tutta la durata del processo, la pesca è stata interdetta e ciò ha apportato non pochi benefici: murene, corvine, scorfani e aragoste – specie rare al Giglio già da qualche anno – hanno ripopolato la zona dopo poco tempo! Inoltre, le dimensioni di molti pesci dell’area, come saraghi e orate, sono aumentate oltre ogni previsione. Anche alghe rosse e altri invertebrati bentonici sono tornati ad abitare la zona dove era presente il relitto.  

Infatti, la realizzazione di no-take-areas, in cui le attività di pesca sono vietate, permette il ripopolamento anche delle aree esterne a quella protetta, secondo un modello definito “spill-over: gli individui possono migrare dalla zona dove la pesca è proibita verso zone limitrofe non protette nel momento in cui la biomassa supera la capacità portante della no-take-area

UNO SGUARDO AL FUTURO

Adesso è doveroso porsi delle domande sul futuro di quest’area: un mancato piano di tutela, una volta completate le azioni di ripristino, potrebbe mandare in fumo anni di lavoro. Azioni di disturbo dove sono stati effettuati i trapianti, come l’ancoraggio indiscriminato delle imbarcazioni e le reti a strascico, potrebbero, in assenza di una regolamentazione, creare danni definitivi nell’arco di pochi mesi, vanificando lo sforzo fatto. Questa deve essere un’occasione per creare una vera e propria zona di ripopolamento e di fruizione ecocompatibile: il mare ci ha mostrato una resilienza che è andata oltre ogni nostra aspettativa, è compito nostro adesso far sì che la vicenda abbia un epilogo felice.

Isola del Giglio – foto via visitgiglioisland.com

Bibliografia e sitografia:
Autrice: Sara Parigi

Sara è volontaria Worldrise e autrice per SeaMag dal 2021. Attualmente è iscritta al terzo anno di Scienze Biologiche presso l’Università di Firenze. Appassionata di cetacei fin da quando era bambina, se fosse un animale marino sarebbe una balenottera, un po’ schiva e introversa, ma anche pacata e razionale.

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