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Ripercorriamo la storia di due beluga salvati da un acquario cinese e le varie tappe che li hanno portati nuovamente in mare, per capire l’importanza di osservare gli animali in libertà, nel loro habitat naturale.

Little Grey e Little White sono due esemplari femmina di beluga catturati nel 2011 presso le coste della Russia e venduti all’acquario “Ocean World” di Shangai. Per più di otto anni sono state rinchiuse in una vasca troppo piccola e costrette ad esibirsi per il pubblico. Nel 2019, però, l’associazione Sea Life Trust si è interessata al loro caso e, grazie ad una mobilitazione internazionale, è riuscita a liberare i due animali per riportarli nel loro habitat naturale, l’Oceano Artico.

Little Grey e Little White – foto via @BelugaSanctuary su Twitter

Identikit della specie

Il beluga (Delphinapterus leucas) è un odontocete di notevoli dimensioni, che può raggiungere i 5,5 m e si contraddistingue da altri cetacei per la sua colorazione bianca, talvolta con sfumature giallastre, tipica degli esemplari adulti. I cuccioli di beluga sono invece più scuri, da grigio cenere a bluastri, e iniziano a schiarirsi intorno ai 5 anni. La specie presenta un melone globoso e, al posto della pinna dorsale, una lieve protuberanza. Grazie al collo estremamente flessibile, inoltre, l’animale è in grado di voltare piuttosto nettamente la testa per esplorare l’ambiente circostante. I beluga sono cetacei sociali e vivono in genere in gruppi stabili di 5-10 esemplari, ma occasionalmente sono stati avvistati raduni anche di alcune migliaia di individui, come successo nell’estuario del fiume San Lorenzo, in Canada, nota area di alimentazione per questa specie. Il repertorio vocale di questi animali è ricchissimo e le vocalizzazioni sono spesso udibili anche fuori dall’acqua: per questo motivo il cetaceo viene chiamato anche “canarino del mare”.

Foto via Canva

La scelta del santuario

L’obiettivo dell’associazione che ha seguito la liberazione dei due beluga rinchiusi nell’acquario era quello di creare un santuario dove gli animali potessero essere abituati nuovamente alla libertà, in modo graduale: infatti, dopo un periodo di tempo in cattività, gli esemplari non erano più in grado di cacciare in autonomia né di affrontare le rigide temperature dell’acqua, essendo abituati a nutrirsi di prede già morte e a vivere in vasche interne riscaldate. Il luogo adatto per ospitarli in natura, quindi, doveva essere facilmente raggiungibile con i mezzi di trasporto e riparato dalle tempeste e dalle maree, come una baia con temperature intorno ai 10-14°C e profondità massima di 10 m. Dopo attente analisi, la scelta è ricaduta sulla Baia di Klettsvik, nell’isola di Vestmannaeyjar, al largo della costa sud dell’Islanda.

La Baia di Klettsvik in Islanda

Il trasporto

Il protocollo della liberazione è iniziato nel giugno 2019: Little Grey e Little White hanno percorso più di 10.000 km dalla Cina all’Islanda, viaggiando su un camion, un aereo cargo boeing 747-400ERF e un rimorchiatore portuale. Ogni beluga ha viaggiato in serbatoi di trasporto appositamente costruiti, dopo essere stato sollevato grazie a barelle appositamente progettate, misurate in base alle loro esigenze fisiche. Arrivati alle Isole Westman, dopo circa 30 ore dalla partenza, i due cetacei sono stati trasferiti in una vasca temporanea, dove sono rimasti per circa un anno per abituarsi al clima islandese. L’arrivo del Covid e alcuni lavori di costruzione hanno rallentato il rilascio in mare ma, finalmente, nell’aprile 2022 il percorso di acclimatamento è terminato e i beluga sono stati liberati nella baia.

Il prezzo della libertà

Little Grey e Little White non saranno mai completamente indipendenti dall’uomo: infatti, la baia di Klettsvik è chiusa da un apposito pontile che la divide dal mare aperto per mezzo di una rete mobile e i due cetacei sono costantemente monitorati da un team di esperti. Le loro condizioni, però, sono notevolmente migliorate, in quanto ora dispongono di oltre 32.000 m² per nuotare e immergersi in profondità. Il santuario può ospitare fino a 10 beluga e il Sea Life Trust mira a far sì che altri animali con un passato in cattività possano unirsi alle due ospiti.

Negli anni, sono stati diversi i casi di delfini e orche che sono stati oggetto di programmi di reinserimento in Natura: tra questi vi è anche Keiko, l’orca protagonista nel film Free Willy. Il protocollo di liberazione, che varia da specie a specie, ma che presenta una base comune per tutti gli esemplari, costa circa 1 milione di dollari e presenta diverse fasi molto delicate, in quanto non sempre un animale abituato a vivere in cattività risponde positivamente ai nuovi stimoli.

Foto via Canva

Un business da miliardi di dollari

Ad oggi sono più di 3000 i cetacei in cattività nel mondo. Una ricerca condotta da Naomi Rose, Ph.D in Biologia dell’Animal Welfare Institute, ha messo in luce che l’80% di questi sono delfini, di cui l’87% appartenenti alla specie Tursiops truncatus; il restante 20% è equamente ripartito tra beluga e orche, che a volte vengono addirittura tenuti nelle stesse vasche dei delfini, pur presentando esigenze diversissime. Cina, USA e Messico possiedono da soli la metà dei delfinari del mondo, luoghi dove gli animali non solo vengono fatti esibire negli spettacoli, ma spesso anche fatti nuotare con i turisti. 

Il 25% dei cetacei è ospitato in vasche al chiuso, obbligato a vivere senza vedere mai nemmeno il sole. La dieta nei delfinari è costituita da poche specie ittiche, che non rispecchiano la variabilità alimentare degli animali e che non ricoprono l’intero fabbisogno giornaliero di calorie. Inoltre, i processi di ozonizzazione e clorazione che vengono impiegati per pulire le vasche possono provocare seri danni agli occhi e alla pelle degli animali, in quanto vengono utilizzati prodotti chimici aggressivi a discrete concentrazioni. Gli animali risultano essere anche più sensibili alle infezioni batteriche e fungine: per questo, al fine di prevenire le malattie, vengono periodicamente sottoposti a profilassi antibiotiche anche quando non necessario. Per ridurre l’ansia e lo stress, vengono loro somministrati farmaci a base di benzodiazepine, che hanno importanti effetti collaterali. In aggiunta, i delfini vengono forzati a vivere con altri esemplari in gruppi che non ricalcano la complessità delle società di questi animali; spesso, inoltre, le madri vengono separate dai cuccioli, quando invece in Natura si instaura un rapporto che dura per anni.

Considerando il costo medio di un biglietto e le attività extra offerte, un singolo animale genera tra 400.000 e 2.000.000 $ ogni anno. Questo significa che tutti i cetacei in cattività producono annualmente tra 1.1 e 5.5 miliardi di dollari. Davanti a questi numeri, dire che i cetacei vengano tenuti in cattività “a scopo educativo e di conservazione” non è, purtroppo, credibile.

Cosa possiamo fare noi?

Non alimentiamo il business dei delfinari: pagare il biglietto per osservare gli animali in cattività significa collaborare al proseguimento della violenza perpetrata su questi esseri viventi.

Il modo migliore per apprezzare i delfini è osservarli nel loro habitat naturale: il mare. Sia in Italia sia all’estero sono molte le associazioni che offrono questo servizio; nel nostro Mediterraneo, mare ricchissimo di biodiversità, è possibile avvistare, oltre ai delfini, anche la balenottera comune e il capodoglio.

Delfini a Golfo Aranci, in Sardegna – foto di Placido Benzi

Ognuno può scegliere l’attività più adatta alle proprie esigenze, dalla settimana di studio a bordo di un catamarano, all’uscita di mezza giornata in motonave. Nello specifico, Worldrise ha all’attivo a Golfo Aranci, in Sardegna, il progetto “Il Golfo dei Delfini”, che mira alla formazione di operatori turistici impegnati nell’attività di dolphin watching a basso impatto e alla promozione di un turismo sostenibile. Sempre a Golfo Aranci, Worldrise organizza l’Action & Biology Campus, settimane di formazione rivolte a giovani studenti e neolaureati, per avvicinarli al mondo del lavoro e fornire loro un’esperienza pratica sul campo anche nell’ambito del monitoraggio marino-costiero.

Studenti dell’Action & Biology Campus impegnati nell’avvistamento sostenibile dei delfini

L’osservazione di delfini e cetacei nel loro ambiente naturale è in definitiva l’unico modo per conoscere davvero questi animali. I delfinari e gli acquari sono strutture a finalità di lucro, dove gli animali vivono da reclusi, costretti ad esibirsi per il pubblico pagante in spettacoli che non hanno nulla di naturale. Tutti noi in prima persona possiamo agire per migliorare la situazione, smettendo di accrescere questo business. Anche i governi possono fare tanto: 13 Stati dell’Unione Europea, l’India, il Cile e la Costa Rica hanno vietato da alcuni anni la gestione di delfini in cattività. In Italia è vietata dagli anni Novanta la cattura di cetacei a scopo commerciale: purtroppo, però, i delfini rinchiusi nei delfinari italiani non possono beneficiare di questa protezione perché o sono stati catturati in acque marine al di fuori di quelle europee o sono nati nei delfinari (quindi fin dalla nascita sono considerati di proprietà di queste strutture). È ora di rivedere queste leggi, in un’ottica più consapevole ed ecosostenibile.

Bibliografia 
Autrice: Sara Parigi

Sara è volontaria Worldrise e autrice per SeaMag dal 2021. Attualmente è iscritta al terzo anno di Scienze Biologiche presso l’Università di Firenze. Appassionata di cetacei fin da quando era bambina, se fosse un animale marino sarebbe una balenottera, un po’ schiva e introversa, ma anche pacata e razionale.

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