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L’affascinante storia di come l’uomo sia passato da esploratore della superficie ad esploratore dei fondali marini più inaccessibili.

Jules Verne, nel suo celebre libro “Ventimila leghe sotto i mari”, narra la straordinaria capacità del sottomarino Nautilus di mostrare ai suoi occupanti le meraviglie degli abissi attraverso un oblò. Questo è sicuramente il sogno di tutti gli studiosi del mare profondo, ma sono ben pochi i fortunati ad aver avuto questa possibilità. Come siamo arrivati da un avventuroso romanzo di fine 800 alle moderne tecniche di esplorazione dei fondali marini?

Illustrazione del capitano Nemo che osserva un calamaro gigante da un oblò del sottomarino Nautilus, da “20000 Lieues Sous les Mers” di Jules Verne. – via Wikipedia

L’ipotesi azoica

Nella prima metà del 19° secolo, un brillante naturalista britannico di nome Edward Forbes stava studiando la distribuzione delle piante e degli animali nel mare. A bordo della HMS Beacon, impiegò delle draghe per sondare oltre 100 tratti di fondale, spingendosi fino a circa 420 metri di profondità, un risultato notevole per l’epoca. Ad oggi è nota a tutti l’importanza della profondità dei fondali marini e della penetrazione della luce in essi per modellare la distribuzione della flora e della fauna degli oceani, ma all’epoca non era un risultato così scontato. Forbes individuò diverse “zone” o “regioni”, dando una prima e sommaria descrizione di quella che oggi chiamiamo “zonazione bentonica”. Notò così che le specie, sia animali che vegetali, tendevano a ridursi progressivamente all’aumentare della profondità e formulò così l’“ipotesi azoica”; inoltre, provò a fornire per estrapolazione una profondità oltre la quale la vita sarebbe risultata totalmente assente, ovvero sotto ai 550 m.

Le successive esplorazioni compiute nel 1800 iniziarono ben presto a confutare tale ipotesi; ad esempio, le spedizioni antartiche delle HMS Erebus e HMS Terror sotto James Clark Ross riportarono la presenza di animali fino ai 700m di profondità, mentre Sir Leopold McClintock osservò alcune stelle marine su una cima per lo scandaglio che toccava i 2300m.

Come e quante di queste creature potessero prosperare a tali profondità, rimase però un mistero fino alla famosa spedizione del Challenger.

La spedizione del Challenger

Gli anni dal 1872 al 1876 rappresentano la nascita dell’oceanografia in quanto vera e propria scienza: in questi anni, infatti, ebbe luogo la spedizione della corvetta britannica HMS Challenger, con lo scopo di raccogliere dati sulle caratteristiche chimico-fisiche del mare, sui fondali e sulla vita marina delle acque di tutto il globo. La spedizione fu un successo rivoluzionario: le misurazioni della temperatura e della salinità delle masse d’acqua a varie profondità aiutarono la comprensione dello stretto legame fra queste ultime e la circolazione delle principali correnti. Draghe e reti furono invece largamente impiegate per la cattura di esemplari a varie profondità, conservati in alcol e studiati negli anni a venire; furono descritte circa 4700 nuove specie, con pubblicazioni che continuarono ad uscire per oltre 20 anni dalla fine della spedizione. Queste metodologie hanno un impatto molto forte sulle specie marine, ma all’epoca erano l’unico strumento disponibile.

Uno dei risultati più celebri di questa esplorazione porta il nome della nave stessa: la scoperta del punto più profondo conosciuto degli oceani, situato all’interno della Fossa delle Marianne e chiamato “Abisso Challenger”, ad una profondità di 10 920m.

La HMS Challenger tra i ghiacci antartici – illustrazione di Herbert Swire, State Library Victoria H2017.82/2 – via Wikipedia

L’invenzione della batisfera

Agli inizi del 1900, le tecnologie per l’esplorazione subacquea erano ancora poco elaborate. Erano state inventate delle tute pressurizzate (ADSs, Atmospheric Diving Suits), ma il loro uso per la ricerca scientifica era scarso, permettendo poco movimento e osservazioni limitate. Attorno agli anni ’30 gli americani Otis Barton e William Beebe (rispettivamente un ingegnere e un naturalista) misero a punto la batisfera, un sottomarino sferico dotato di oblò e luci, connesso ad una nave appoggio. La batisfera fu il primo sistema a portare degli esseri umani fino a quasi 1000 metri di profondità, con ogni immersione che sistematicamente stabiliva un nuovo record. Durante le prime immersioni, i due inventori scoprirono come alcune lunghezze d’onda scompaiano prima di altre nella colonna d’acqua. Furono anche le prime persone ad osservare direttamente moltissime specie nel loro habitat naturale: sebbene molte delle osservazioni siano state confermate successivamente, alcuni degli animali descritti non sono poi stati ritrovati negli anni a venire. Dalle riprese effettuate dalla batisfera fu poi prodotto un film, “Titans of the Abyss”, uscito nel 1938.

La Batisfera conservata al National Geographic Museum – foto via Wikipedia

La storica impresa del Trieste

Era il 23 gennaio del 1960 e, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, il batiscafo di progettazione italiana Trieste con a bordo Jacques Piccard e Don Walsh stava per entrare nella storia. Con una discesa programmata di 5 ore, un tempo di fondo di mezz’ora ed una risalita di 3 ore, i due uomini stavano tentando di raggiungere i quasi 11 km di profondità dell’Abisso Challenger. Per sopportare la tremenda pressione, i due membri dell’equipaggio erano racchiusi in una sfera stagna di acciaio spessa 13 cm, con piccolissimi oblò di plexiglass spessi poco di più e larghi appena 10 cm. Una delle sfide maggiori per conquistare le fosse oceaniche è proprio quella di creare un mezzo in grado di resistere alla pressione, ma anche di risalire in sicurezza. Il resto del Trieste era rappresentato dal suo galleggiante, ripieno non di aria compressa bensì di benzina, in quanto più leggera dell’acqua e incomprimibile rispetto ad un gas. 

Nonostante le difficoltà tecniche, il mare in condizioni non ottimali e la risalita in superficie in piena notte, Piccard e Walsh riuscirono nell’impresa e furono i primi ad osservare direttamente la fauna adale (dal “piano adale” a cui appartengono le fosse oceaniche), tra cui dei pesci piatti, successivamente identificati come oloturie, i “cetrioli di mare” della classe degli echinodermi, diffusi sui fondali marini di tutto il mondo. L’Abisso Challenger rappresenta ancora oggi un’enorme sfida tecnologica: sono di più le persone che hanno esplorato lo spazio rispetto a quelle che hanno raggiunto il fondo dei nostri oceani. Il primo a compiere l’impresa da solo e la terza persona a scendervi fu il regista James Cameron grazie al sommergibile Deep-Sea Challenger nel 2012, effettuando delle riprese senza precedenti.

Il Batiscafo Trieste – foto di Wikipedia da NH 96801 U.S. Navy Bathyscaphe Trieste (1958-1963), Art collection, U.S. Naval History and Heritage Command website

Alvin e le sorgenti idrotermali

Con un’altra memorabile esplorazione, nel 1979 un gruppo di scienziati dello Scripps Institution of Oceanography scoprì le prime sorgenti idrotermali “calde”, chiamate successivamente black smockers o fumarole nere. I camini idrotermali emettono un fluido scuro ricco di zolfo, la cui temperatura supera i 300°C. Un gran numero di organismi peculiari sopravvive attorno ai camini, con specie diverse che si stabiliscono a differenti distanze dalla plume calda. Si tratta di ambienti unici, in cui la vita è resa possibile dalla chemiosintesi: quasi tutti gli animali presenti sopravvivono grazie all’energia prodotta da batteri simbionti in grado di sfruttare i composti ricchi di zolfo. Questi batteri sono produttori primari totalmente indipendenti dall’energia solare. 

Quasi tutte le specie presenti sono uniche e straordinariamente adattate a questo ambiente peculiare, come ad esempio i vermi tubulari giganti appartenenti alla specie Riftia pachyptila (M. L. Jones, 1981), una delle specie emblematiche delle fumarole nere.

Vermi tubolari giganti alle Galapagos – foto di NOAA Okeanos Explorer Program, via Wikipedia

Esplorazioni moderne

La maggior parte delle campagne oceanografiche odierne impiega metodi indiretti per esplorare i fondali, perchè i sommergibili con equipaggio sono estremamente costosi, non esenti da rischi e richiedono navi oceanografiche attrezzate in maniera specifica. Per studiare in sicurezza e con costi contenuti, quindi, vengono impiegati veicoli filoguidati (Remotely Operated Vehicles, ROVs), comandati dalla nave e dotati di telecamere, luci e braccia meccaniche. A seconda delle necessità, possono essere attrezzati con varie sonde e strumenti, risultando così estremamente versatili. 

Un esempio di ROV (Remotely Operated Vehicle) – foto via Canva

Nonostante gli ultimi anni stiano portando a conoscenze sempre maggiori, conosciamo con un dettaglio maggiore la superficie della Luna e di Marte piuttosto che quella dei nostri oceani, una mancanza cruciale se vogliamo proteggere al meglio questi ambienti. Come spesso accade, i nostri impatti ci hanno preceduto, come dimostrano molte riprese in luoghi mai esplorati ma già raggiunti dalla plastica o da altri rifiuti. Uno stile di vita più sostenibile e accorto alle necessità dell’ambiente non è d’aiuto solo per quello che possiamo vedere nei primi metri del mare, ma è essenziale per fondali che potremo non avere la fortuna di osservare prima di anni!

Bibliografia:
Autore: Alfredo Marchiò

Alfredo è un subacqueo e amante della fotografia, recentemente laureato in Biologia ed Ecologia Marina. Se fosse un animale marino sarebbe sicuramente un’orca, una creatura libera di esplorare il mare secondo la propria curiosità!

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