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Così come esistono le ondate di calore terrestri, anche in mare si può verificare un fenomeno simile, che sta diventando sempre più frequente e intenso a causa del cambiamento climatico. Scopriamo gli impatti delle ondate di calore marino sul Pianeta Blu.

Si parla di ondata di calore marino quando la temperatura dell’acqua raggiunge valori estremi, più alti della media, per una durata di almeno 5 giorni consecutivi fino a raggiungere anche settimane o mesi. Come le ondate di calore terrestri, anche quelle marine stanno diventando più frequenti e intense a causa del cambiamento climatico: il riscaldamento globale è la principale causa dell’innalzamento della temperatura dei mari e, quindi, dell’aumento delle ondate di calore. 

Foto via Canva

Temperatura e ondata di calore marino

La temperatura è una caratteristica dell’oceano che varia in base alla latitudine, alla stagione e alla profondità. È più elevata in superficie, dove le radiazioni solari arrivano in modo diretto, e più bassa andando in profondità. È una proprietà da cui dipendono diversi fenomeni oceanici e terrestri. Ad esempio, contribuisce direttamente alla formazione delle correnti oceaniche profonde e, di conseguenza, alla risalita di organismi (upwelling) come il plancton, indispensabili per l’alimentazione della fauna marina. La temperatura influenza il clima e la circolazione atmosferica, determina infatti la formazione di nebbia e brezza marina fino a modificare la traiettoria di cicloni extratropicali. Variazioni di temperatura, anche piccole, possono avere grandi e gravi conseguenze sulla natura, stravolgendo l’equilibrio degli ecosistemi, non solo marini.

Il lato negativo della funzione termoregolatrice dell’oceano 

L’oceano ha una funzione molto importante nel quadro dell’equilibrio climatico, è capace infatti di assorbire dall’atmosfera il carbonio e immagazzinarlo per lunghi periodi di tempo. Si stima che senza l’oceano avremmo in atmosfera un livello di CO2 di 600 ppm circa, contro i 420 ppm che sono stati raggiunti nel 2021. Inoltre, il mare è termoregolatore: si stima che abbia assorbito il 90% del calore immesso in atmosfera dalla combustione dei combustibili fossili e, secondo recenti studi, negli ultimi 18 anni avrebbe addirittura raddoppiato questa quantità rispetto all’era industriale. Il calore assorbito non è rimasto negli strati superficiali, ma ha raggiunto anche le profondità dell’oceano. 

Foto via Canva

Questa funzione di regolazione del clima rappresenta un enorme beneficio, un servizio ecosistemico inestimabile che l’oceano offre a tutto il Pianeta. Ha però un risvolto negativo, poiché tutto il calore assorbito ha a sua volta riscaldato i mari, facendone aumentare la temperatura media di circa 0,8°C dall’inizio del 900. Anche se può sembrare un valore piccolo, addirittura minore di 1, ha delle conseguenze enormi, perché modifica tutti quei fenomeni che dipendono dalla temperatura del mare. 

Un oceano più caldo impatta sulla biodiversità, sul clima, sull’andamento delle correnti ed è più propenso a subire ondate di calore marino. La temperatura superficiale dei mari viene misurata dai satelliti dagli anni 80 e risulta che tra il 1981 e il 1991 si siano verificate 27 grandi ondate di calore della durata di circa 32 giorni, con una temperatura di picco di 4.7°C. Dal 2010 al 2020 il numero è aumentato in modo considerevole: se ne sono verificate 172 della durata di 48 giorni, con una temperatura di picco di 5.5°C sopra la norma. 

Le prime ondate di calore marino

Probabilmente la prima volta che si è usato il termine “ondata di calore marino” è stato intorno al 2010-2011, quando nel mare dell’Australia Occidentale si registrò una temperatura delle acque di 6°C più alta della media. Questo evento danneggiò la biodiversità del luogo, distruggendo estese foreste di kelp e molti animali. 

Qualche anno dopo, nel 2013, si verificò un altro evento simile nel Golfo dell’Alaska, noto come “blob”: in pochi mesi la temperatura superficiale del mare è aumentata di 2,8°C, estendendosi in un’area di ben 3200 km. Il blob ha avuto conseguenze devastanti per l’ecosistema dell’Oceano Pacifico settentrionale, dove il plancton e il krill sono diminuiti considerevolmente, impattando così anche sull’alimentazione dei pesci più grandi, come le megattere. Altri animali, come i merluzzi, si sono ridotti e altri come leoni marini e uccelli sono morti di fame. 

Sciame di krill in mare – foto via Canva

Dal 2015 al 2019, anche il Mar Mediterraneo è stato colpito da una serie di ondate di calore che hanno causato la morte di alghe e coralli, mentre nel 2021 e nel 2022 in Nuova Zelanda le ondate di calore marino hanno portato allo sbiancamento di spugne marine. 

Gli impatti delle ondate di calore marino 

Le ondate di calore marino possono ridurre i servizi ecosistemici oceanici: da quelli produttivi, impattando sull’area disponibile per pescare, a quelli ricreativi e culturali, con  danni più o meno evidenti. L’impatto più chiaro è quello che riguarda la biodiversità: acque più calde stravolgono l’habitat di specie animali e vegetali, causando la perdita, riduzione o migrazione verso altri luoghi. In un meccanismo a catena, ciò può danneggiare l’economia locale che dipende dalla pesca. In alcuni casi, però, le specie possono riuscire ad adattarsi alle nuove condizioni, come è accaduto per alcuni coralli dell’isola della Fenice e del golfo di Aqaba, che grazie ad alcune varianti genetiche sono risultati più resilienti agli stress termici.

Temperature oceaniche elevate contribuiscono inoltre a impoverire i mari di ossigeno, impattando anche in questo caso sulla vita di piante e pesci.
Una conseguenza meno evidente ai nostri occhi riguarda invece le correnti oceaniche, in particolare la circolazione termoalina che dipende da temperatura, salinità e densità. I cambiamenti di uno di questi fattori, come appunto la temperatura, possono stravolgere l’andamento della corrente, influenzando gli spostamenti degli animali, la disponibilità di nutrienti per la fauna marina, il clima e la ricorrenza di eventi estremi. 

Foto via Canva

Per fermare questi fenomeni è importante agire sulla causa, riducendo le emissioni di gas serra in atmosfera, e allo stesso tempo rendere più resilienti gli habitat e le specie così che possano resistere agli stress termici. A livello locale si può contribuire frenando ciò che indebolisce l’ecosistema, come il sovrasfruttamento ittico e l’inquinamento, e tutelando la fauna e la vegetazione dell’oceano, ad esempio attraverso l’istituzione di Aree Marine Protette. Molto importante si è rivelato inoltre il monitoraggio di specie e aree marine, così da individuare ciò che può nuocere al sistema e intervenire di conseguenza.  

Bibliografia:
Autrice: Graziella Pillari
Graziella è consulente ambientale e scrive per il magazine SeaMag di Worldrise, unendo la passione per l’ambiente alla scrittura. Se fosse un animale marino sarebbe un pesce pagliaccio, che vive nella coloratissima barriera corallina. 

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