Skip to main content

Molti dei servizi ecosistemici fondamentali per la nostra vita vengono forniti da ecosistemi che non sono prettamente marini o terrestri: è il caso delle acque di transizione. In questa breve rubrica, Worldrise vi accompagnerà alla scoperta di questi ambienti, partendo dalle paludi salmastre.

Cosa si intende quando parliamo di “acque di transizione”?

Secondo la Water Framework Directive (WFD 2000/60/EU), la direttiva dell’Unione Europea che impegnava gli Stati membri a raggiungere un buono stato qualitativo e quantitativo di tutti i corpi idrici entro il 2015, le acque di transizione sono definite come “corpi idrici superficiali in prossimità delle foci dei fiumi che presentano un carattere parzialmente salino a causa della loro vicinanza alle acque costiere, ma che sono sostanzialmente influenzati dai flussi di acqua dolce”. 

In realtà, però, tale categoria non include solamente i classici estuari fluviali, ma comprende anche aree come paludi (“salt marshes”), lagune costiere, fiordi e rias.

Foto di Adam Sondel via Pexels

Perché è importante proteggerle?

Le acque di transizione sono di fondamentale importanza in quanto rappresentano il collegamento tra ambiente oceanico e continentale. Variazioni che coinvolgono queste aree potrebbero sconvolgere il loro delicato equilibrio, portando a conseguenze rilevanti anche per le comunità marine adiacenti.

Sono estremamente vulnerabili, perché soggette più di altri ecosistemi ad impatti antropici sia diretti, come l’urbanizzazione, sia indiretti, ad esempio il cambiamento climatico. 

Caratteristica di queste zone è la presenza di un gradiente di salinità, parametro che aumenta man mano che si va dalla parte più interna allo sbocco verso il mare: ciò determina la presenza di una zonazione biologica, ovvero una variazione spaziale della struttura della comunità di organismi qui presenti, con l’alternarsi di specie dulciacquicole o d’acqua salmastra (eurialine, cioè con un ampio range di tolleranza a variazioni di salinità) a specie più prettamente marine. 

Foto di Ferenc Tibodi via Pexels

Iniziamo con… le paludi salmastre!

In questo articolo parleremo delle paludi salmastre, anche dette “salt marshes”, aree caratterizzate dall’abbondante presenza di acqua liquida superficiale e da una biodiversità associata elevata. Questi ambienti sono strutturalmente eterogenei, determinando una diversificazione notevole anche a livello biologico.

Le comunità delle salt marshes sono dominate dalle marsh grasses, piante alte anche 2 m che intrappolano i nutrienti nei sedimenti. I tessuti di tali piante contengono tannini e sono quindi difficili da digerire per gli organismi: infatti, di solito non vengono pascolate ed entrano di conseguenza nella rete trofica del detrito; un comportamento analogo a quello delle seagrasses, ovvero le fanerogame marine come la Posidonia oceanica

La zonazione delle salt marshes

Le salt marshes hanno una zonazione che dipende per l’appunto dalla salinità, quindi sono caratterizzate da una successione di specie di piante differenti: ad esempio, Spartina alterniflora si trova più vicina all’acqua salata, mentre Spartina patens la ritroviamo di solito nella porzione interna. La prima specie sembra avere un vantaggio competitivo sulla seconda, riuscendo a catturare meglio l’ossigeno da suoli anossici come quelli costantemente sommersi dall’acqua. Tale zonazione è osservabile anche nella fauna, con il passaggio da uccelli granivori (es. migliarino di palude), a limicoli (es. beccaccino) e, infine, a piscivori (es. airone). 

Spartina alterniflora in una palude salmastra – foto via Wikipedia

Le salt marshes a Spartina sono dominate dalla presenza di alcune specie di piante che tollerano le variazioni di salinità e i sedimenti anossici: possono trovarsi anche in ruscelli, biologicamente ricchi grazie alla grande disponibilità di materiale organico. Spesso, in associazione a queste zone, possiamo avere banchi di mitili che raggiungono elevate densità e possono, a loro volta, stimolare la crescita di Spartina: il meccanismo potrebbe essere legato alla produzione di feci ricche di azoto da parte dei mitili. I filamenti del bisso prodotto dai bivalvi, inoltre, trattengono i sedimenti, limitando l’erosione di questi ambienti.

Altre piante tipiche delle paludi salmastre, oltre a quelle appartenenti al genere Spartina, sono la tifa (Typha latifolia, la tipica “pianta da palude” dei cartoni animati) o la salicornia (Salicornia europaea), che possiamo trovare ad esempio nell’area del delta del Po, nelle saline e nelle valli di Comacchio.

Typha latifolia – foto via Canva

Perchè le salt marshes sono così importanti?

Le paludi salmastre sono ecosistemi estremamente importanti e produttivi, per 3 motivi principali: 

  1. Hanno un elevato valore naturalistico. Non solo filtrano l’acqua e fungono da trappole per i nutrienti che vengono accumulati a seguito della degradazione microbica della sostanza organica, ma rappresentano dei veri e propri regolatori della circolazione idrica superficiale, attenuando e regolando fenomeni come le piene dei fiumi, le inondazioni costiere e le mareggiate. Rappresentano, inoltre, luoghi di sosta, riproduzione e foraggiamento per molti organismi (in special modo per gli uccelli migratori), purtroppo spesso presenti nelle liste rosse delle specie a rischio.
  2. Costituiscono un patrimonio culturale notevole come archivi di antiche forme d’insediamento e di attività, spesso testimoniate da manufatti.
  3. In ultimo, in quanto luoghi di attrazione turistica, equivalgono ad una risorsa economica non indifferente. 

Beccaccino – foto via Canva

L’attuale status di protezione

In generale, vengono definite come zone umide o wetlands «le paludi e gli acquitrini, le torbiere oppure i bacini, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua stagnante o correntedolcesalmastra, o salata, ivi comprese le distese di acqua marina la cui profondità, durante la bassa marea, non supera i sei metri». Queste aree sono protette dalla Convenzione di Ramsar (Iran, 1971), un accordo con il quale gli Stati aderenti si impegnavano alla tutela delle proprie zone umide, segnalandone almeno una d’interesse internazionale; l’Italia, che vi ha aderito nel 1976, ne protegge oltre 50. Oggi sottoscritta da più di 100 Paesi nel mondo e con oltre 900 zone umide designate, questa Convenzione rappresenta il primo trattato internazionale moderno ed una delle più significative manifestazioni di cooperazione tra Stati per la tutela delle Zone Umide, promuovendo i principi dello sviluppo sostenibile e della conservazione della biodiversità.

Le zone umide sono tra i maggiori ecosistemi sequestratori di carbonio del pianeta, ma quando sono disturbate rilasciano i tre gas principali responsabili dell’effetto serra nell’atmosfera: anidride carbonica, metano e protossido di azoto. Per tale motivo, proteggere le zone umide significa anche mitigare i cambiamenti climatici. Spesso soggetti a bonifica per far posto a campi coltivati o a centri urbani, questi habitat hanno visto una drastica riduzione della loro estensione nel tempo. L’aumento del livello del mare, conseguenza del riscaldamento globale, potrebbe mettere ulteriormente a dura prova la salvaguardia di tali delicati ecosistemi. 

Segnaletica zona protetta dalla convenzione di Ramsar – foto via Wikimedia

Cosa si può fare per prevenire la loro perdita? 

Oltre all’istituzione di misure di conservazione, è importante anche il ripristino delle zone umide costiere degradate, per esempio attraverso l’aggiunta di sedimenti per innalzare il terreno sotto il livello dell’acqua, permettendo così la colonizzazione da parte di nuova vegetazione (con piante che possono essere anche trapiantate a partire da paludi sane o da coltivazioni specializzate) e la limitazione dei processi erosivi fino ad allora in atto. Inoltre, si può procedere con la riumidificazione delle zone umide precedentemente drenate bloccando il drenaggio e riducendo l’estrazione di acqua sotterranea. 

Nel bacino del Mar Mediterraneo, ad esempio, l’iniziativa MedWet promuove e supporta politiche ed azioni sul campo coinvolgendo numerosi stakeholder per la conservazione, il ripristino e l’uso sostenibile delle zone umide del bacino. Tale rete intergovernativa regionale opera nel quadro della Convenzione di Ramsar e si basa sullo sforzo collaborativo di 27 Paesi ed enti mediterranei, del Segretariato Ramsar, di istituzioni intergovernative, di ONG internazionali e di istituzioni nazionali specializzate in questioni relative alle wetlands.

Foto via Canva

Tra le zone umide troviamo anche le lagune costiere, sistemi altrettanto peculiari e vulnerabili, di cui parleremo meglio nel prossimo articolo. Stay tuned! 

Bibliografia: 
Autrice: Pamela Lattanzi

Pamela è attualmente una borsista presso il CNR (Centro Nazionale delle Ricerche), recentemente laureata in Biologia Marina. Per lei la divulgazione è la chiave che permette di rendere la scienza accessibile a tutti. Se fosse un animale marino sarebbe un idrozoo, uno cnidario coloniale che sembra fragile, ma in realtà è incredibilmente resistente e spesso in grado di adattarsi bene alle circostanze più varie.

Leave a Reply